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Uno studio esemplare per un poeta esemplare
Quando un lettore più o meno scaltrito ha tra le mani un lavoro, specie di questa natura, si arma di guanti, bisturi e microscopio, e si approccia con estrema cautela, se non diffidenza, alla verifica dei perché e dei come di quel lavoro. In questo caso il primo perché mi ha sconvolto il cervello: ho pensato al peggio del peggio; poi vengo a sapere che il mio amico Nicola sta combattendo la sua ultima battaglia per la vita. La morte, intanto, già l’ha sconfitta, perché un poeta come lui ha superato la prova del tempo, il vero signore della morte, mentre lo spazio materiale è un accessorio ingombrante, a volte, e insignificante. Nicola Iacobacci è immortale, come e “per” i suoi versi. I due biografi, Giovanni Mascia e Michele Castelli, sono suoi amici di antica data. Ed allora insorge il dubbio su un altro perché: la spiegazione sarebbe chiara (l’origine locale, l’amicizia, la condivisione sentimentale e memoriale, l’adesione a prescindere), se non fosse che, conoscendo i due autori, mi sono presto convinto che non sarebbero capaci di accoccolarsi sulle sponde del più vieto provincialismo e specchiarsi nelle onde del Tappino. Anch’io sono un amico di Nicola Iacobacci, e in tempi non sospetti – anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – ho incoraggiato il suo febbrile percorso poetico alla ricerca di una identità personale, sicura e inconfondibile. Riconoscevo le sue capacità di folgoranti sintesi metaforiche nel cogliere l’essenza nascosta e frantumata delle cose e della vita. Leggendo i versi de La pietra turchina (1978) mi rividi bambino a inghiottire un confetto di verderame, affascinato dal suo colore; e nei versi de La vecchia (Il passo dello scorpione, 1980) mi ricomparve la figura epica di mia nonna che, statuaria, gambe tese e mani ai fianchi, sul loggiato di casa, guardava fissa il sole cadente sulla cresta dei monti: dissi a me stesso, prima di scriverlo, che questo poeta aveva colto l’anima di un mondo comune, primitivo e struggente, radioso e inquietante. La quidditas di quel mondo Nicola l’ha espressa tutta, in immagini potenti, che mi riportano alla mente le Women of Molise scolpite in bianco e nero dalla macchina fotografica di Frank Monaco nel 1950.
Ed ora andiamo a sciogliere il secondo nodo, il come, perché tali lavori di costruzione biografica rischiano spesso la deriva apologetica, l’empatia acritica, il consenso aprioristico, che fanno arricciare il naso del lettore esigente, quando annusa aria di enfasi o, peggio, di artefatta menzogna. Assicuro gli eventuali lettori che non è così, in questo caso. Anzi, i due autori, consapevoli di questa trappola, che deriva dalla natura stessa del genere storico-letterario (la biografia), hanno sviluppato un lavoro di meticoloso accertamento dei dati e delle ipotesi critiche, con ampia esemplificazione di testi, proprio ad evitare il sospetto dell’errore premeditato o dell’improvvisazione, facendo proprio il principio espresso da Carlo Saggio, uno degli studiosi più importanti dell’opera di Iacobacci: “[…] mi sono anche ricordato che il critico non deve fare affermazioni la cui verità non sia documentabile e documentata, così io ho citato versi e intere poesie nella speranza di riuscire utile e persuasivo […]” (Cap. V, p. 103) . Questo è esattamente ciò che gli autori della presente monografia hanno fatto, nulla lasciando allo scontato, al banale, all’approssimativo. Esemplare è l’impianto dell’opera, che si apre con il racconto della vita dell’Autore (Capitolo I, a sua volta preceduto da un elenco cronologico delle opere del Poeta) e si chiude con un dettagliato indice alfabetico di tutti coloro, critici e storici della letteratura, che si sono occupati dei suoi scritti. E sono tantissimi, noti e molto rinomati, tra i quali Bàrberi Squarotti, Grillandi, Piromalli, Di Poppa Volture, Valeri, Ravasio, Gizzi, Tombari, Giacalone, Frattini, Saggio, Tanelli, Santangelo, Rimanelli, per restare nel campo nazionale. E già il Capitolo I, piccolo capolavoro di narrazione storico-biografica (il paese, Toro, e la sua storia, l’infanzia dello scrittore, la comunità, il mondo popolare, la natura immensa, il fascino dell’ancestrale, del magico, il distacco, la città, gli studi e le scelte di vita) ci tratteggia, intero, il “personaggio”, definito nel suo ruolo, che man mano, nei capitoli successivi, si autenticherà nelle prove creative, sino all’immagine compiuta, alla misura complessiva. Sicché nei capitoli che seguono (sono 20 in tutto, e, in più, un ventunesimo che raccoglie tutti gli altri scritti [saggi, recensioni, interventi vari di Iacobacci]), sviluppati in rigoroso ordine cronologico, ciascuno dedicato ad un’opera, gli autori abbozzeranno, con competenza professionale e massima circospezione critica, il profilo del Poeta che, non inutile rimarcarlo, si staglia nella sua dimensione senza precisi confini geografici e culturali. Sottoscrivo, perciò, in pieno una definizione di Andrea De Lisio, uno di coloro che meglio hanno colto l’essenza intima della poesia di Iacobacci: “Non direi che Iacobacci è poeta meridionale (o molisano). Lo rimpiccioliremmo, fermiamoci al sostantivo” (Cap. VI, nota 282). E che ciò sia vero è dimostrato dal fatto che il suo universo poetico è stato ben percepito e rivissuto laddove si è esteso, in Italia, in Francia e nelle Americhe. Ci arriva, dunque, opportuna questa monografia di Mascia e Castelli, a completare una mappa letteraria che riconsegna al Molise una presenza essenziale e al resto del mondo un capitolo da integrare: una monografia eccellente nell’impianto e nell’articolazione, ripeto, entro la quale, sequenza per sequenza, si definisce con rigorosa puntualità di riferimenti, larghezza di testimonianze e citazioni, studiata sorveglianza ed acume esegetico, il profilo integrale di un protagonista dell’arte poetica della cui appartenenza alle radici comuni la nostra terra può giustamente essere orgogliosa.
Giambattista Faralli